Adriano forever
Londra travolta dalla passione perl’imperatore che ricorda Obama
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Spesso la storia insegna più verità sul presente che sul passato. Le ragioni per cui il mito di Adriano non è mai stato tanto vivo quanto oggi non hanno se non parzialmente a che fare con la verità di ciò che questo grande ma controverso imperatore fu e fece. Succeduto a Traiano non senza ombre, fu il primo a invertire la tendenza, che sembrava ancora sotto il suo predecessore irresistibile, a un’espansione mondiale dell’impero. Il suo karma politico, che probabilmente è uno degli aspetti che oggi ci attraggono in lui, fu, al contrario, quello di delimitare: il ritiro delle truppe dalla Mesopotamia, l’Iraq di oggi, la costruzione del Vallo, la grande muraglia fatta innalzare nel nord dell’Inghilterra per delimitare il confine dell’impero e arginare i barbari della Caledonia, l’attuale Scozia. Furono solo due esempi della sua ossessione per il limes, dell’urgenza culturale e della pulsione quasi architettonica di misura e contenimento.
Un’ansia attuale, che per lui trovò un’eco visiva nella Villa di Tivoli. Non tanto nel microcosmo imperiale reinventato e recintato, quanto in quel mirabile circuito di marmo, lungo un miglio esatto, che si incontra oggi al suo ingresso. Si dice che il buon imperatore lo percorresse ogni giorno, se necessario discutendo con i suoi ministri, per essere certo di avere camminato abbastanza. Il suo culto per il corpo e la bellezza fisica aveva sicuramente a che fare con il suo preferire alla civiltà romana cui apparteneva l’antica paideia greca. Il suo estetismo, il suo misticismo pagano, anche la sua omosessualità erano echi letterari di un’indistinta eta’ dell’oro ellenica per cui l’anima antica provava una confusa nostalgia. Animula vagula blandula / hospes comesque corporis, poetava. Ma nessuno storico, né moderno né antico, ha mai schernito questi tratti in lui, come invece in Nerone. Anzi, la storiografia novecentesca — per non parlare della letteratura, con in testa il best seller di Marguerite Yourcenar — li ha presi molto sul serio. Ha fatto di lui un’icona, quasi, del nostro tempo. Ci ha presentato un campione di tolleranza, fautore della diplomazia in politica e della solidarietà sociale, difensore degli schiavi, tutore dei vinti. In effetti, Adriano visitò l’impero in lungo e in largo come oggi fa solo il papa. Era un grande, appassionato viaggiatore.
Ma la vicinanza di Adriano all’epoca appena trascorsa è ancora più grande nei lati oscuri, tragici della sua personalità politica. La spietata repressione antigiudaica, ad esempio, sconfinò in quello che possiamo considerare il primo olocausto ebraico. Dopo che la rivolta di Bar Kochba fu repressa nel sangue, con 580.000 ebrei uccisi, 50 città rase al suolo e 985 villaggi distrutti, il buon imperatore proibì la Torah, soppresse il calendario giudaico e condannò a morte gli studiosi delle scritture. I rotoli sacri furono bruciati nel Tempio e Gerusalemme prese il nome di Aelia Capitolina. Fu proibito l’ingresso in città a chi fosse di razza giudea.
Certo, i ribelli di Bar Kochba erano animati, nel loro separatismo etnico e nel loro integralismo monoteistico, da uno animus fanatico che contrastava con i valori di tolleranza universale professati e promossi dall’imperatore che costruì il Pantheon. Ma la tolleranza, se è universale, non dovrebbe esercitarsi anche sugli intolleranti? Gli antichi si posero questo interrogativo, ma la voce della propaganda, come quasi sempre nella storia, prevalse. Adriano fu il più crudele dei persecutori degli ebrei. Suo nipote Marco Aurelio, come ha mostrato Renan, fu il primo grande persecutore dei cristiani. Entrambi sono stati esaltati dalla storiografia come imperatori filosofi. Almeno questa è una verità, che dovrebbe farci riflettere.