Ipazia fu «martire» come Caterina? Forse, ma non «illuminista»
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Dalle note a piè di pagina ai cartelloni del cinema: quello compiuto da Ipazia di Alessandria è stato un balzo prodigioso e non privo di rischi. Si è trattato, anzitutto, di un viaggio accelerato nel tempo, dalla complessità tardo-antica del IV-V secolo d. C. alla confusione postmoderna del Terzo millennio. Tutto grazie a un film, il discusso Agorà di Alejandro Amenábar, che aggiorna e semplifica il contesto storico, così come ammoderna e rielabora la vicenda della pensatrice neoplatonica facendone, di volta in volta, un Galileo in peplo o un Odifreddi glabro. Operazione che ha suscitato, da subito, la diffidenza di esperti come la romanista Ilaria Ramelli (i lettori di Avvenire ricorderanno le numerose puntate della sua rubrica, «Colombario», dedicate alla morte della filosofa) e la bizantinista Silvia Ronchey, che ora pubblica il documentato e anticonformista Ipazia: la vera storia. Un libro che ha avuto origine dalle controversie suscitate da Agorà, ma nel quale il film non è mai citato. Per snobismo? No, per amore di chiarezza. L’avventura umana e intellettuale di Ipazia, lascia intendere l’autrice, è troppo importante per essere piegata alle polemiche dell’ultimo momento. La posizione di Silvia Ronchey non è conciliante nei confronti della Chiesa: nella sua interpretazione, la responsabilità dell’orrenda uccisione di Ipazia ricade comunque sul patriarca Cirillo, ma è depurata da tutti gli elementi ideologici successivamente stratificatisi. Quella contro la geniale matematica, figlia di Teone ed estrema rappresentante della tradizione culturale della Biblioteca, non fu una persecuzione religiosa ai danni del paganesimo, né tanto meno l’esito di una campagna oscurantista contro i progressi della scienza (sull’effettiva portata delle scoperte di Ipazia, del resto, le notizie certe scarseggiano). Anche il movente della misoginia risulta, da ultimo, anacronistico e irrilevante. Il motivo del dissidio va piuttosto cercato, secondo Ronchey, nell’influenza che Ipazia esercitava sul prefetto della città, Oreste: un legame che Cirillo avrebbe considerato come un ostacolo sul piano politico e che avrebbe indotto i più accesi sostenitori del vescovo, i cosiddetti «parabalani», a togliere di mezzo la donna. Un episodio a suo modo semplice, che nel corso del tempo è stato più volte rimaneggiato così da trasformare Ipazia in un’anticipatrice dell’Illuminismo (è la posizione, spesso acriticamente citata, di Voltaire). O addirittura in Caterina, la martire di Alessandria nella quale la bizantinista riconosce più di un tratto della vicenda di Ipazia. Identificazione forse discutibile, ma comunque degna di rispetto per l’eleganza e la misura con cui è proposta.